Ceausescu vi fece costruire i palazzi per i lavoratori delle fabbriche che dovevano rendere grande il Paese. Oggi è la strada più degradata di Bucarest. Un inferno, specchio delle contraddizioni del post-socialismo

DI FRANCESCA MANNOCCHI DA BUCAREST – FOTO DI ALESSIO ROMENZI

 Cos’è successo? Perché tutte queste macchine?», domanda una donna a una ragazza, esile, di fronte alle scale di un edificio. «Marga è morta, la mamma è morta». Margareta era la madre di Sara, vent’anni, corpo piccolo e ossuto, viso teso. Ai piedi le ciabatte e in testa un fiocco nero in segno di lutto. Margareta aveva quarantaquattro anni, cinque figli ed era sieropositiva. Un compagno che entrava e usciva dal carcere con cui ha avuto due figli. Poi il tentativo di risollevarsi dalla povertà, qualche lavoro dignitoso, un nuovo compagno, altri tre figli, poi – di nuovo – la mancanza di lavoro. E un unico sollievo: l’eroina.

Margareta viveva nel ghetto: Strada Livezilor, Ferentari, settore 5, Bucarest. Livezilor è una strada composta da due file di edifici fatiscenti di cinque piani, tra un edificio e l’altro cumuli di immondizia, topi. Agli angoli delle vie donne che spazzano a terra e altre donne sedute lungo il marciapiede con casse di frutta da vendere. Al primo sguardo potrebbero sembrare tentativi di normalità: il mercato, un po’ di soldi per sbarcare il lunario, allo sguardo successivo l’altra faccia della realtà: le donne stringono una manciata di siringhe. Un tassista si ferma, tira fuori qualche lei dalla tasca laterale dei jeans, la donna mette una mano nel grembiule, prende i soldi, gli passa la dose. E poi riprende a spazzare.

Un uomo cammina con lo sguardo perso nel vuoto tenendo per mano un bambino, suo figlio, e nell’altra mano una siringa, con tutta probabilità usata, conta un po’ di denaro, lo porge a una donna robusta. Lei gli passa una bustina – la sua dose – lui abbozza un sorriso, è sollevato, riprende suo figlio per mano, diretto verso casa. Il corpo è segnato dalla droga: sulle braccia, sulle gambe, non un centimetro è stato risparmiato dai buchi. Si gratta nervosamente, ha croste dappertutto, le pupille a spillo dell’eroina. Il viso scavato, piedi gonfi, labbra bluastre.

Più che camminare si trascina, fino a infilarsi in uno degli edifici scrostati e consumare nell’androne il sollievo momentaneo dell’eroina, mischiata a metanfetamine e a chissà che altro. Quest’angolo di Ferentari lo chiamano il ghetto dei tossici, ma Livezilor è molto di più, è lo specchio delle contraddizioni rumene.

Gli edifici di Livezilor erano stati costruiti da Ceausescu per i lavoratori delle fabbriche che arrivavano dalle aree rurali per fare grande il paese. Dopo il 1989 le fabbriche hanno cominciato a chiudere e gli alloggi dei lavoratori si sono via via spopolati, lasciando spazio agli emarginati. Oggi a Livezilor vivono poveri, disoccupati, tossici, prostitute. I dimenticati della capitale.

Più che case, qui, ci sono stanze. Tredici metri quadrati, una finestra e un bagno. Acqua e gas in un appartamento ogni cinque. Ai tempi del comunismo c’erano due lavoratori per stanza, ora tredici metri quadrati arrivano a contenere anche famiglie di dieci persone. Negli androni delle scale siringhe usate, a terra urina. L’odore si mischia al tanfo dell’immondizia che circonda gli edifici, resti di cibo gettati dalle finestre, vestiti ammassati e ancora plastica, aghi. Tutto a Livezilor parla la lingua dell’emarginazione.

Sara apre la porta della stanza-casa, dove fino alla sera prima vivevano in sette. Ci dormivano in sei divisi sui due lati del letto, lei, i quattro fratellini, la nonna e Margareta. Lo zio – unico uomo adulto – a terra.
Margareta si è sentita male la sera prima, setticemia. L’hanno portata all’ospedale dove poco dopo è morta. Da due settimane rifiutava di essere ricoverata, aiutata, curata. Si è lasciata morire, dice qualche vicino a bassa voce. Succede quando non riesci più a sopportare Livezilor. Perché tanto, dicono tutti, è questione di tempo, a Livezilor siamo già morti.

Sara apre una busta rossa, le fotografie di un tempo che è stato. Lei bambina, sua madre in salute. «Avevamo un po’ più di soldi, la mamma lavorava, eravamo poveri ma vivevamo dignitosamente. Sono stata una bambina serena», dice scegliendo le foto da portare via con sé.

Poi la crisi finanziaria, la disoccupazione che nelle zone come Ferentari in meno di quattro anni raddoppia e l’oblio, che ha la forma della polvere su un pezzo di carta, il filtro rimosso di una sigaretta messo sopra un ago, l’eroina che si scalda e il liquido risucchiato dalla siringa.

Margareta era bella, anche Sara lo è. Come i fratelli minori, come Sami che ha tredici anni, è semianalfabeta e vorrebbe venire in Italia a giocare a pallone. Sami che non ha più una madre, non è stato riconosciuto dal padre e ha vissuto nel degrado di una via in cui i genitori mandano i figli a raccogliere e distribuire siringhe usate. In cui i bambini scendono a giocare in uno slalom di mezzi vivi che si bucano sulle scale di casa, dove è normale vedere la propria madre mentre si droga, e l’eroina ha narcotizzato tutto al punto che i figli piccoli non piangono neppure di fronte alla bara di Margareta.

Perché la morte a Livezilor la incontri anche ai bordi delle strade, solo una settimana fa – raccontano i volontari che lavorano nella zona – all’incrocio con la via principale c’era il corpo di un uomo riverso sul marciapiede e intorno i bambini a giocare a pallone. Oggi sullo stesso angolo di marciapiede un altro uomo è piegato su sé stesso, si contrae. La siringa vuota alla sua sinistra. E, anche intorno a lui, i bambini continuano a giocare a pallone.

«Livezilor è la strada più degradata del quartiere più degradato di Bucarest, i ghetti attraggono marginalità e i disagi si sommano: droga, malattie, prostituzione sono conseguenza una dell’altra». Franco Aloisio si guarda intorno mentre arriva in auto nel quartiere per prendersi cura del funerale di Margareta. Lo fa per Sami che frequenta la fondazione che presiede a Bucarest, Parada. Franco è arrivato in Romania nel 1999, tre anni dopo che il clown franco-algerino Miloud Oukli aveva dato vita alla fondazione per il reinserimento sociale di giovani e adulti che vivevano nei canali sotterranei dei tubi dell’acqua calda: la città sotto la città che scalda la capitale rumena.

Oggi il numero dei ragazzi di strada è nettamente diminuito, ma le condizioni degli emarginati sono peggiorate per l’esplosione di droghe sintetiche, eroina, e per le malattie che ne derivano.

L’esplosione dell’uso di metanfetamine e droghe etnobotaniche, le chiamano le “legali” perché si potevano comprare nei negozi: i magazzini dei sogni. Poi il governo li ha chiusi e lo spaccio si è spostato per strada. In questi anni l’aumento dell’uso di eroina e “legali” ha coinciso con la drastica riduzione dei finanziamenti internazionali per il contrasto dei danni legati alla droga. I fondi sono praticamente prosciugati.

La Romania era entrata nell’Ue, dunque poteva farcela da sola. Invece non ce la fa. E non c’è un piano.
Aras (associazione anti-Aids rumena) ha esaurito i fondi per la sostituzione delle siringhe. E dal 2010 la diffusione dell’Hiv tra i consumatori di droga è esplosa, dall’1 al 60 per cento.

«La prossima emergenza a Bucarest sarà l’esplosione dell’Aids», dice Franco Aloisio, «stimiamo che in città ci siano ventimila tossicodipendenti, la metà sieropositivi. Molti non sanno nemmeno di essere stati contagiati e il tasso di mortalità è altissimo. Fino al 2007, data di ingresso nell’Unione Europea, abbiamo vissuto anni di grande intervento sulle marginalità. Paradossalmente entrare in Europa, per le politiche di inclusione ha rappresentato una regressione perché il disagio sociale è sparito dall’agenda politica pubblica, sostituito dal decoro».

A Bucarest ogni angolo di strada ricorda i sei mesi della presidenza di turno dell’Unione che termina alla fine di giugno. Ci sono bandiere europee dappertutto, nei boulevard pieni di turisti e caffè delle vie del centro fino al Palazzo del Parlamento, il secondo edificio più grande al mondo: mille stanze, 700 mila tonnellate di acciaio e bronzo per le porte monumentali, 1400 specchi, due piani sotterranei. Un tempo era Casa Popurolui, la Casa del Popolo di Ceausescu. Oggi all’esterno campeggia la scritta: Romania 2019, presidenza del Consiglio dell’Unione Europea.

Dodici anni dopo l’ingresso nell’Ue e 30 dopo la caduta del Muro, la Romania è il paese delle contraddizioni, il paese dell’opulenza e della povertà estrema. In questi anni ha ricevuto dall’Europa 56 miliardi di finanziamenti che hanno portato un po’ di sviluppo se amministrati con criterio e aumentato divari sociali dove gestiti secondo logiche corruttive, dove cioè – raccontano i cittadini – «senza pagare mazzette non ti mettono nemmeno sulla barella in ospedale, non ti cambiano la flebo».

Dal 2015 la crescita annuale del Pil del paese è stata sempre superiore al 4 per cento, fino al picco del 5 per cento del primo trimestre 2019, ma lo sviluppo economico non ha sanato le differenze interne: uno stipendio medio nella capitale è di circa 750 euro, in Moldova, la zona più povera del paese non arriva a duecento.
Secondo i dati Eurostat, alla fine del 2018, sono 3 milioni e 281 mila i rumeni ancora considerati “gravemente materialmente svantaggiati”, che cioè vivono in povertà estrema. I soldi europei a Bucarest hanno decisamente portato progresso, la città è piena di turisti, locali aperti notte e giorno, brand popolari e grandi marchi illuminano la fino al mattino. A essere euroscettici sono i socialisti del Psd, in rotta con Bruxelles per le proposte di riforme della giustizia atte a depenalizzare l’abuso d’ufficio e ridurre la lotta contro la corruzione. Le critiche europee sono state così severe che il leader del Psd in campagna elettorale ha utilizzato le parole d’ordine della destra nazionalista europea, il motto del Psd per la campagna elettorale è stato: Patrioti in Europa.

Prima di essere sconfitto dai conservatori del Partito Nazionale Liberale alle scorse elezioni europee, i socialisti del Psd hanno sponsorizzato per anni una politica basata sulla crescita dei consumi che ha non solo impoverito le casse dello Stato ma ha trascurato investimenti pubblici in attività industriali e agricole, nelle infrastrutture e nei trasporti. In un paese che ha solo ottocento chilometri di autostrade. E dove mancano infrastrutture, si sa, non arrivano nemmeno investitori, non arrivano cioè posti di lavoro.

Perciò 3 milioni e mezzo di persone si sono trasferite altrove per sfuggire alla povertà e all’assenza di prospettive, cioè un cittadino rumeno ogni sei ha lasciato il paese. Vuol dire che se un’azienda ha bisogno di manodopera specializzata non la trova. Significa che se continuerà a calare costantemente il numero dei giovani nel mercato del lavoro, la popolazione che oggi conta 19 milioni di persone arriverà a 16 nel 2050 e sarà un problema pagare le pensioni. E aumenterà il numero degli emarginati, dei marginalizzati.

Significa che chi cerca lavoro va via, e chi resta ha bisogno di sussidi statali. Intanto, una Bucarest spende e consuma. L’altra è isolata nel ghetto.

«Sono realtà che non si parlano, la nuova capitale, la Bucarest del consumo, non vuole vedere la marginalità degli ultimi, tollera il ghetto di Ferentari perché non deve conviverci», racconta ancora Franco Aloisio, mentre guida, stavolta verso Gara de Nord, la stazione principale, fino a pochi anni fa era la casa della gente dei canali, i ragazzi di strada che vivevano sottoterra «Sono due città parallele che convivono in uno spazio geografico ma non si intersecano mai. In Romania si è inceppata l’idea di comunità, chi ha avuto il potere l’ha utilizzato per depredare il paese, il paese è stato saccheggiato, è rimasto corrotto e gli svantaggiati sono rimasti indietro».
Oggi nella gerarchia degli ultimi il canale è l’ultimo stadio, ne è rimasto aperto uno a Gara de Nord. Mariu vive lì, ha trent’anni ma il suo volto, il volto scavato dall’Hiv, non ha età. I suoi amici sniffano Aurolac, la vernice che provoca danni al cervello e all’apparato respiratorio, Mariu controlla il valore di qualche pezzo di bigiotteria, i furti del giorno, per fare i conti per mangiare.

Non si buca più, dice. Non sapeva nemmeno di essere sieropositivo fino a qualche tempo fa. L’ha contagiato una ragazza, che ha molto amato quando nei canali c’era una vita parallela, e Bruce Lee, il boss che li controllava – ora in carcere – aveva fatto costruire sottoterra una piscina e una discoteca.

La ragazza adesso è morta. Mariu ora non ha più niente, non ha aiuti, non ha la sua famiglia, che lo rifiuta. Non ha la vita dei ragazzi dei canali. Consuma il tempo e consuma sé stesso su un materasso sporco nel canale della stazione.

Da quando le autorità hanno chiuso i canali dove vivevano i tossici, strada Livezilor è tollerata, perché consumatori di droghe si autoghettizzano lì, lontano dai fasti del centro città. Don Federico vive a Bucarest da due anni, cammina con disinvoltura per le vie di Ferentari, stringe le mani a chi dorme in strada, porta sollievo, parla a lungo con un ragazzo scheletrico, le braccia segnate dai tagli, dall’autolesionismo.

«Sono magro perché ho fame. Non mi buco, ma nessuno mi fa lavorare perché sono rom, e vivo qui, nel ghetto», dice.

Qualcuno a Livezilor ci è finito perché è rimasto indietro, perché con l’aumento dei salari per gli statali è aumentata anche l’inflazione. E basta un intoppo, una malattia, un problema. E non ce la fai.

Un giorno hai una vita dignitosa, il giorno dopo sei a Livezilor, tra i tossici, i sieropositivi. È la storia di Cristian, sessant’anni. Viveva con suo fratello e sua madre, insegnante di rumeno al liceo, in una zona residenziale nel Settore tre di Bucarest. Poi la madre si è ammalata di cancro, il Psd ha triplicato i costi sanitari, cui vanno aggiunti quelli delle medicine e il prezzo della corruzione, le mazzette ai medici e agli infermieri. E Cristian non ce l’ha fatta. Senza madre, senza soldi e senza casa.

Da quattro anni vive a Livezilor, la sola cosa che può permettersi. Stringe il vangelo e il rosario. Prega e piange e non esce mai dalla stanza di dieci metri quadri al terzo piano del blocco sei, che puzza di urina e stantio, per cui paga un affitto di quattrocento lei al mese, ottanta euro.

Dalla sua finestra si vedono immondizia e il via vai dei clienti della sera, chi arriva dalla capitale a prendere eroina.

Per quelli come lui è più difficile, perché a Livezilor ci sono finiti, e Livezilor ti inghiotte e ti consuma. Don Federico gli stringe le mani, lo incoraggia. Sii forte Cristian. Ma lui non ce la fa a essere forte. Piange, trema. E si vergogna.

Questo reportage apre una serie dedicata al trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino.